1.L’Infanzia del Castriota: fra Mito e Leggenda
Proviamo a percorrere, per qualche riga, la linea temporale dell’adolescenza di Scanderbeg così come ci è stata tramandata da Barlezio.
Oltre a un tributo annuo, Murad II chiede a Giovanni di consegnargli tutti e quattro i suoi figli come ostaggi. Nella disperazione più nera, il padre di Giorgio acconsente alla richiesta.
Giorgio Castriota arriva alla corte del sultano a nove anni circa.
Immediatamente, lui e i suoi fratelli vengono convertiti forzatamente all’Islam e circoncisi. A tutti loro, Murad assegna degli ottimi appezzamenti di terreno, ma è il piccolo Giorgio a dare le maggiori soddisfazioni al Sultano, che lo cresce come un figlio proprio. Nel giro di pochi anni, il ragazzo mostra il suo valore nello studio, tanto da essere in grado di padroneggiare correttamente sei lingue: albanese, greco, turco, arabo, italiano e schiavone. Nell’arte del combattimento raggiunge risultati ancora migliori e considera un vero e proprio disonore l’essere sconfitto nella lotta o nel duello.
Giorgio Castriota diventa Scanderbeg (“Scander”, ossia Alessandro, e “beg”, ossia principe, signore). A diciotto anni, Murad lo reputa abbastanza maturo per guidare un contingente di 5.000 soldati contro il governatore della Cilicia. Scanderbeg torna indietro da trionfatore e continua a guidare i soldati di Murad in giro per l’Asia minore.
Scanderbeg si trova ad Adrianopoli, allora capitale dell’Impero Ottomano, quando un guerriero tartaro, convinto di essere il migliore del mondo, inizia a sfidare i più forti combattenti turchi. Egli sostiene che nessuno sia in grado di batterlo, ed effettivamente la sua forza e le sue dimensioni fanno desistere la maggior parte dei soldati ottomani. Il Sultano stesso promette una grande ricompensa a chi riesca nell’impresa di sconfiggerlo.
Ad accogliere la sfida è Scanderbeg. Secondo le testimonianze, egli si reca dal Tartaro e gli parla così:
“Benché io pensi che un uomo magnanimo non debba mettere a repentaglio la sua vita o quella dei suoi simili, sono comunque venuto qui per accettare il combattimento. Lo faccio per mostrarti che anche in questo Impero ci sono uomini abbastanza valorosi da umiliare la tua arroganza e per impedirti di tornare in patria e vantarti che nessun Ottomano abbia osato misurarsi con te.”
Non conosciamo la risposta del Tartaro, ma è di disprezzo, soprattutto vista la giovane età del suo sfidante. Scanderbeg lo esorta quindi a non esitare oltre e a raggiungerlo nell’arena.
Fra i testimoni dello scontro, che avviene all’interno di un campo delimitato da una palizzata, c’è lo stesso Murad. I due guerrieri si svestono fino alla cinta e impugnano le scimitarre. L’assalto del Tartaro è violento, ma Giorgio devia la lama verso l’esterno e lo colpisce alla gola. Il Tartaro frana a terra e muore dissanguato.
Scanderbeg mostra il suo valore anche in un’altra occasione. Durante il soggiorno di Murad in Bitinia (a Prusa), arrivano alla sua corte due cavalieri persiani, Jaia e Zampsa, intenzionati a entrare nella sua guardia personale. Entrambi sostengono di essere imbattibili nel combattimento a cavallo e sfidano gli uomini di Murad. Nessuno accetta la sfida, neanche Giorgio. Tuttavia, è proprio Murad a chiamarlo per nome e a chiedergli di mettere alla prova i due giovani persiani. L’albanese obbedisce senza esitare e monta a cavallo. Jaia e Scanderbeg rompono le rispettive lance contro la corazza dell’altro e passano a combattere con la scimitarre. Zampsa, vedendo Jaia in difficoltà, accorre in suo aiuto a briglia sciolta. Scanderbeg però lo vede arrivare e gli squarcia il petto con la sua arma, facendolo cadere da cavallo. Jaia, infuriato, lo incalza, ma Giorgio para i colpi e risponde. Alla fine, riesce a colpirlo fra il collo e la spalla, quasi “bipartendolo”.
Entusiasta per la vittoria del suo protetto, Murad II chiede a Scanderbeg di chiamarlo “padre”, perché lui lo avrebbe trattato come un figlio. In realtà i due hanno solo pochi anni di differenza.
Secondo Demetrio Franco, dopo lo scontro, Murad prevede che, quando Scanderbeg raggiungerà l’età perfetta, non ci sarà un solo guerriero in grado di batterlo in tutto il mondo.
Scanderbeg però, pur essendo esteriormente un guerriero Turco, continua a provare (sebbene siano passati molti anni) un grande dolore quando è costretto a versare sangue cristiano. Per quanto possibile, cerca di evitarlo, ma quasi tutti gli avversari dell’Impero Ottomano professano il credo romano.
Giorgio Castriota viene a conoscenza, nel 1437, della morte del padre, Giovanni Castriota. Per non arrecare un dolore a Murad II, per cui prova sentimenti simili a quelli che intercorrono fra padre e figlio, Giorgio tace il dolore. I sudditi di Giovanni chiedono a Murad di mandare a governare l’Albania uno dei figli del re morto, tutti cresciuti presso la corte di Adrianopoli. Murad però contravviene alla promessa fatta decenni prima e si limita a dare una ricca rendita a Voisava, vedova di Giovanni e madre di Giorgio, e a trasferirla con l’unica figlia non ancora sposata in Macedonia.
Le guarnigioni ottomane prendono possesso di molte città e fortezze albanesi e Murad, per evitare che i figli di Scanderbeg possano reclamare il trono paterno, decide di farli avvelenare. L’unico a salvarsi è Giorgio. Murad evita di ucciderlo per l’affetto che prova nei suoi confronti, ma soprattutto, a detta di molti, per evitare un’insurrezione delle sue truppe, che apprezzano immensamente le doti del guerriero albanese.
Scanderbeg comprende però che dietro la morte dei suoi fratelli c’è un ordine di Murad, e inizia a considerarlo solo un vile assassino, oltre che un soggetto incapace di mantenere la parola data al padre Giovanni. Sebbene Murad, per tenerlo accanto a sé, gli prometta uno stato tutto per lui, più grande e ricco dell’Albania, Scanderbeg ormai sa di non potersi più fidare di lui.
Inoltre, Giorgio Castriota attira su di sé le invidie della corte del sultano, che insinua proprio in quest’ultimo il dubbio che l’albanese punterà, prima o poi, a sottrargli addirittura il trono. Ed è a questo punto che Giorgio decide definitivamente di liberarsi dalla prigione dorata di Adrianopoli.
Fin qui la leggenda. Ma cosa accade se procediamo a una rigida consultazione e comparazione delle fonti? Al fine di evitare una deriva prettamente accademica della monografia, possiamo dire con certezza che questo immane lavoro è già stato compiuto da un dottorando della Università di Boston alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Theofan Stilian Noli non può essere però menzionato come un semplice dottorando. Parliamo infatti di uno degli uomini più eruditi della storia d’Albania, nonché primo ministro del paese appena liberato dal dominio ottomano. Con tre lauree, sei lingue conosciute in modo quasi perfetto e un enorme numero di documenti da poter consultare in lingua originale, il Noli redige quindi una biografia straordinaria (e ancora insuperata) dell’eroe albanese.