4.La Spedizione Italiana
L’anno successivo, Giorgio perde due dei suoi amici e alleati più preziosi, il Conte Vrana, che nel 1450 ha difeso Croia resistendo sia ai cannoni che ai tentativi di corruzione turchi, e soprattutto Re Alfonso V d’Aragona. Il Castriota, scrivendo al Principe di Taranto, dice di lui:
“Quello sancto et immortale Re de Aragona, del quale io ne nullo di li miei vassalli ni potemo recordare senza lacrime”
Oltre ad averlo privato di un forte alleato, la morte di Alfonso V ha provocato una violenta lotta di successione per il Regno di Napoli fra il figlio illegittimo di Alfonso, Ferdinando (conosciuto anche come Ferrante), e gli Angioini, che hanno perso il regno anni prima proprio per mano di Alfonso. Il Re di Francia, Carlo VII, sostiene con forza le ragioni di Giovanni d’Angiò, e a lui si uniscono molti nobili napoletani e Papa Callisto III. Tuttavia, alla morte di quest’ultimo prende il potere Pio II, che parteggia per Ferdinando e lo incorona Re di Napoli presso la cattedrale di Barletta nel 1459. Per fronteggiare Giovanni d’Angiò, entrambi chiedono il supporto di Scanderbeg. Pur avendo ristabilito, dopo dieci anni di tensioni, discreti rapporti commerciali con Venezia, il Castriota teme che, lasciando i suoi territori per una campagna italiana, vi sia il rischio di una guerra civile, di un attacco turco o, forse, di entrambe le cose. Anche grazie all’intervento dell’Arcivescovo di Durazzo, Scanderbeg si riconcilia con i nobili albanesi e, nel 1460, sottoscrive anche un accordo di pace con i Turchi.
Con queste premesse, l’impresa italiana sembra possibile. Il Castriota si inserisce nel conflitto meridionale in punta di piedi, inviando alcuni contingenti di cavalleria leggera da impiegare in azioni di guerriglia analoghe a quelle utilizzate contro i Turchi.
Il piano di Scanderbeg funziona. Ce ne accorgiamo, in modo indiretto, da una lettera inviatagli l’11 Ottobre 1460 dal Principe di Taranto, Giovanni Antonio Orsini, in cui questi cerca di convincerlo a non mandare altre truppe. L’Orsini si è infatti schierato dalla parte di Giovanni d’Angiò, ed è letteralmente terrorizzato dall’idea che i cavalieri albanesi arrechino ai sostenitori degli Angioini gli stessi danni fatti ai Turchi. Quello che Giovanni Antonio Orsini non ha preso in considerazione è che il Castriota “non si lascia scoraggiare dalle situazioni, anche quando sembrano disperate, e porta sempre a termine il suo dovere a dispetto di qualsiasi difficoltà”. La risposta del Castriota è infatti un raro esempio di analisi strategica e volontà incrollabile:
“Ma ricordatevi, che maiore era la possanza del gran Turco, che non è la vostra, ne ancho il Signore che substenite. Et essendomi restata la sola città de Croia [...] contro tanto podere la defesi et conservai, fin che con danno et vergogna li Turchi se levarono, et io in breve tempo et con poca gente racquistai quello, che molti inimici in longo haviano guadagnato. Sichè quanto più se deve sperare la restauratione de lo stato de Re Ferrando, che se non havesse se non Napoli habiate per certo, che ha ad essere vincitore”
Nel mese di Giugno del 1461, Scanderbeg promette a Re Ferdinando che gli presterà soccorso personalmente alla testa di mille cavalieri e duemila arcieri. Ferdinando, appena sconfitto alla foce del Sarno da Giovanni d’Angiò e Giovanni Antonio Orsini, versa in condizioni militari ed economiche disastrose, tanto che la moglie Isabella, pur di raccogliere denaro sufficiente ad assoldare un nuovo esercito, chiede a tutti i cittadini di Napoli di recarsi alla Chiesa di San Pietro Martire e lì, vestita in abiti dismessi, chiede loro l’elemosina!
A Ferdinando, assediato a Barletta dai suoi nemici, non rimane nulla. Solo la promessa fatta da un condottiero albanese. E il Castriota tiene sempre fede alla parola data.
Nell’Agosto del 1461 porta i suoi uomini a Ragusa, dove riceve un contributo per l’impresa italiana. Lì fa imbarcare per l’Italia il nipote, Giovanni Stresu Balsha, con parte del contingente. Il 25 Agosto prende terra a Barletta con il resto degli Albanesi, trovando una situazione disperata. La città, l’unica rimasta in mano a Ferdinando insieme a Napoli e Trani, è stretta dall’assedio di Giacomo Piccinino, figlio di Giovanni d’Angiò. Re Ferdinando gli comunica inoltre che la sua situazione finanziaria è anche peggiore di quella militare.
L’arrivo del Castriota trasforma la disperazione degli assediati in una rinnovata energia. Gli basta un solo giorno per costringere alla ritirata i soldati del Piccinino.
Scrive il Biemmi:
“La comparsa della flotta Albanese commandata da un guerriero d’un si terribile grido gittò un tale spavento nell’armata degli assedianti, che questi subito ritiraronsi dalla Piazza, e perdute in un colpo tante loro speranze allontanaronsi alcune miglia”
Ferdinando non crede ai suoi occhi, ma coglie l’occasione per lasciare la città e raggiungere le truppe di supporto in arrivo dal Ducato di Milano, al comando di Alessandro Sforza. A partire dal 5 Settembre 1461, la difesa di Barletta e la guerra contro il Principe di Taranto sono nelle mani di Scanderbeg. Egli ha costruito la sua fortuna sulle violentissime incursioni della sua cavalleria leggera, quindi non ha alcun interesse a barricarsi dentro le mura di Barletta. Al contrario, lancia continue sortite nelle campagne circostanti, massacrando i contingenti mandati dal Piccinino e distruggendo tutte le fonti di approvvigionamento del nemico. Il Castriota guida personalmente la maggior parte delle azioni e combatte sia con la sua famosa spada curva che con la mazza d’arme. La cavalleria italiana, dotata di armature a piastre complete e rispettosa, almeno nella maggior parte dei casi, agli usi della guerra fra gentiluomini, si trova a dover combattere contro veterani albanesi con dieci o venti anni di guerriglia con i Turchi sulle spalle. Sono uomini duri, brutali, che non lasciano scampo agli uomini del Piccinino e dell’Orsino.
Il Castriota stesso dimostra di non badare troppo alla forma quando, venuto a sapere che il capitano della guarnigione di Trani, Antonio Infusado, ha intenzione di vendersi ai francesi, lo invita a un incontro. Scanderbeg però non vuole parlare, ed infatti si limita a incatenarlo e costringerlo a cedere la città al nipote Giovanni Stresi Balsha. È l’inizio di dicembre del 1461 e gli Albanesi del Castriota hanno letteralmente distrutto i piani di conquista degli Angiò. Re Ferdinando, pur essendo passato da una situazione difensiva a una offensiva, ha ancora bisogno dell’aiuto del Castriota, ma purtroppo per lui, nel Gennaio del 1462 la moglie di Scanderbeg, fa recapitare al marito un messaggio di questo tenore: “i Turchi sono alle porte. Devi tornare a casa!”
Costretto a imbarcarsi in tutta fretta, il Castriota è stato comunque in grado di fiaccare le forze del nemico in modo decisivo. Pochi mesi dopo la sua partenza, Ferdinando e Alessandro Sforza pongono fine alla guerra annientando l’esercito angioino a Troia (18 Agosto 1462).