Secondo la tradizione, i territori dell’attuale Albania erano già evangelizzati all’epoca di san Paolo; infatti l’antica Illiria è citata dall’Apostolo: «Così da Gerusalemme e dintorni fino all’Illiria, ho portato a termine la predicazione del Vangelo di Cristo» (Rm 15,19). Dürres o Dyrrhachion/Durazzo era già sede di diocesi nel 58 d.C., mentre Shkodra/Scutari e Lezha sono attribuite al IV secolo. Le migrazioni delle popolazioni slave cancellarono il primo cristianesimo nell’Illiria e nella Tracia, e gli albanesi dell’epoca tornarono al paganesimo. Il vocabolario ecclesiastico di lingua albanese mostra l’influenza del latino, e la fede probabilmente si diffuse a partire dalle città costiere colonizzate dai romani. L’Albania apparteneva politicamente all’Impero Romano d’Oriente, ma rimase sotto la giurisdizione ecclesiastica di Roma fino al 732. Nel Sud, l’influsso bizantino crebbe, mentre il montuoso Nord rimase legato alla Chiesa di Roma, poiché l’influenza culturale veneziana era più forte, e i monasteri  benedettini si erano moltiplicati dopo la Quarta Crociata. Tuttavia alcuni indizi, come un ordine per un’abbondante provvista di vino — e ciò implica che la comunione veniva distribuita sotto ambedue le specie — testimoniano l’influenza della Chiesa bizantina anche nel Nord(1).
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I cattolici e l’Impero ottomano

In linea di massima, la Chiesa cattolica patì più di quella ortodossa il giogo ottomano. Poiché il Papa era considerato un nemico dal Sultano, inizialmente i cattolici non furono organizzati in un millet (2) come gli ortodossi sotto Costantinopoli, ma furono spesso privati di vescovi e sacerdoti e trattati e tassati come dipendenti degli ortodossi oppure soggetti ai capricci dei singoli statuti. Fino al 1609 essi furono integrati nel millet armeno gregoriano, dopodiché per loro fu istituita una divisione separata sotto il protettorato francese. Intorno al 1635 una missione francescana raggiunse l’Albania settentrionale, benché una sia pure frammentaria presenza dei francescani sia documentata a partire dal 1248 (la Custodia Duracensis o protettorato francescano a Durrës). Soprattutto ai francescani si deve se le 19 tribù dell’Albania settentrionale rimasero cattoliche(3).

Malgrado rappresentassero una minoranza, i cattolici contribuirono in modo molto superiore al loro numero alla cultura e alla letteratura albanesi. Il più antico esempio di albanese scritto risale alla formula battesimale dell’Arcivescovo di Durrës (1462). Il primo libro in albanese fu il Meshari (un messale latino di tipo abbreviato) di Gjon Buzuku (1555), un sacerdote albanese, che mostra l’influenza del dialetto veneziano nella terminologia latina presa in prestito. Probabilmente non destinato a un effettivo uso liturgico, fu composto come aiuto ai sacerdoti albanesi per comprendere meglio i testi della messa. Subito dopo comparvero le traduzioni e gli scritti originali degli scrittori cattolici in dialetto ghego del Nord, i quali mantenevano tutti contatti culturali con l’Italia, in particolare con Venezia e il suo dialetto: Pjetër Budi, Frang Bardhi, Pjetër Bogdani.

L’arcivescovo di Skopje, Pjetër Bogdani, compose la prima grande opera scritta in albanese, il trattato teologico apologetico Cuneus prophetarum (il Bastione dei profeti, Padova 1685), che apparve in albanese con una contemporanea traduzione in italiano. Bogdani descrisse il pellegrinaggio dell’Assunzione sul Monte Pashtrik, a ovest di Prizren, nel quale si recavano in processione i musulmani insieme ai serbi, ai greci ortodossi e agli albanesi cattolici tenendo in mano candele di cera e camminando intorno alla vetta per tre ore a piedi nudi. Nel XX secolo, il francescano albanese Gjergj Fishta (1871-1940) divenne il poeta nazionale e diede all’Albania il suo poema epico più amato, Lahuta e malciís (Il liuto delle montagne). Poco dopo la sua morte, Fishta divenne una «non persona» durante gli anni della persecuzione comunista, a seguito della firma del trattato di amicizia tra l’Albania e la Iugoslavia (luglio 1946). Il poema di Fishta venne considerato antislavo e ostile, in quanto descriveva le scaramucce tra le tribù albanesi e montenegrine.

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Gli ortodossi nell’Impero ottomano

Il XVII e il XVIII secolo, trascorsi sotto il dominio ottomano, paradossalmente, permisero alla Chiesa ortodossa di sperimentare una sorta di Rinascimento. Gli ortodossi non furono perseguitati con la stessa asprezza dei cattolici e riuscirono a restaurare diverse chiese. Un centro di cultura ortodossa si formò nella zona di Voskopoja, vicino a Korça, dove fu costruita la più bella tra le chiese albanesi; fu fondata un’accademia, dove l’erudito aromeno Theodor Kavalioti compilò il suo Prôtopeiria (Sillabario) (Venezia 1770), un primo dizionario in tre lingue: greco, aromeno e albanese. Il primissimo tentativo fatto dagli ortodossi di tradurre le Scritture in albanese fu la cosiddetta «Pericope pasquale» (Mt 27,62-66), un frammento che risale alla fine del XV o all’inizio del XVI secolo, scoperto nel 1906 dallo studioso greco Spyridon Lampros nella Biblioteca Ambrosiana di Milano. Nel XIX secolo, l’arcivescovo Grigor Gjirokastriti preparò il primo Nuovo Testamento albanese. Più popolari furono le traduzioni di Kostandin Kristoforidhi Nelko (1827-95), che tradusse parti dell’Antico e del Nuovo Testamento sia in ghego, il dialetto del Nord, con alfabeto latino (1869), sia in tosco, il dialetto del Sud (1879). Ma l’Antico Testamento non è stato ancora tradotto integralmente.

Tra gli ortodossi, oltre agli albanesi, occupavano posizioni di rilievo anche greci, aromeni e bulgari slavi o macedoni. Come accadeva anche in altri Paesi balcanici, i confini tra albanesi e greci non erano tracciati con chiarezza. L’Albania meridionale (Epiro settentrionale) includeva persone di madrelingua greca, mentre la Grecia settentrionale ne includeva altre di etnia albanese. Mentre molti musulmani e cattolici parteciparono in prima persona al Rinascimento nazionale (Rilindija), che culminò nel 1913 con l’autonomia dell’Albania, gli ortodossi scelsero di dare la priorità all’impegno per l’unione dell’Albania meridionale con la Grecia, un progetto che altri consideravano un tradimento. Midhat Frashëri presiedette la Commissione che stabilì l’uso dell’alfabeto latino nell’albanese moderno.

Suo fratello Sami, musulmano, insistette per la creazione di una Chiesa ortodossa autocefala albanese. Ma sia la Sublime Porta sia il Patriarcato ecumenico si opposero fin dall’inizio a tale progetto, e i tentativi fallirono. Nel 1905 il pope Kristo Negovani (1875-1905) morì mentre cercava di introdurre l’albanese nella liturgia ortodossa, ucciso da un gruppo di estremisti greci sciovinisti. Nel frattempo, l’Albania conquistava l’indipendenza nel 1920. I circoli governativi incitavano la Chiesa ortodossa a rompere i suoi legami con Costantinopoli e con il mondo greco e a diventare una Chiesa nazionale. Nel 1921 l’Albania espulse i quattro vescovi di etnia greca dal Paese. Il Concilio di Berat (1922) istituì in modo unilaterale una Chiesa autocefala albanese contro la volontà di Costantinopoli. Il Patriarca Gregorio VII e Costantino VI si opposero ambedue con fermezza al movimento. Nondimeno, inviarono due vescovi di origine albanese a rappresentare i loro interessi al Concilio: Hierotheu di Militopoli e Kristofor Kissi (1908-58) di Synada. Ironia volle che Kissi successivamente diventasse il primate della Chiesa autocefala albanese.

Inizialmente sia Hierotheu sia Kissi suggerirono al Patriarca ecumenico di garantire alla Chiesa albanese l’autonomia ma non l’autocefalia, una proposta immediatamente rifiutata dagli albanesi. D’altro canto, un movimento autocefalo si era già sviluppato nell’ambito della diaspora albanese negli Stati Uniti, sotto l’egida di Fan Noli, un erudito e uomo di Chiesa scaltro ma politicamente eccentrico, noto per le sue traduzioni di libri liturgici nonché di Shakespeare e Goethe. Noli tornò in Albania, dove introdusse l’uso dell’albanese nei servizi ecclesiali contro la volontà di Costantinopoli, che era pronta a garantire agli albanesi un’indipendenza limitata a patto che continuassero a usare il greco. Noli fu consacrato vescovo — a quanto pare era la terza volta che accettava la consacrazione episcopale — da Hierotheu e Kristofor nella cattedrale di San Giorgio a Korça. Venne quindi formato un primo Sinodo albanese di vescovi ortodossi: Hierotheu di Korça e Gjirokastra, Kristofor Kissi di Berat e Vlora, e Fan (Noli) di Durrës e Tirana. Essi si riunirono a Korça in un Concilio nazionale nel gennaio 1924.

Ma questa situazione durò soltanto cinque mesi, durante i quali Noli fu anche a capo del Governo albanese, fino a quando il suo rivale musulmano, Ahmed Zogu, conquistò il potere e salì al trono albanese nel 1928. Nel 1929, su espresso desiderio di re Zog I, la Chiesa albanese ancora una volta unilateralmente si dichiarò autocefala ed elesse come metropolita l’archimandrita Visarion (Xhuvani). Egli aveva studiato in Grecia, ma era stato consacrato vescovo a Kotor/Cattaro (Iugoslavia) da vescovi ortodossi russi della Chiesa della diaspora, che avevano temporaneamente stabilito il loro Sinodo in Iugoslavia, a Sremski Karlovci. Per evitare l’interferenza greca, gli albanesi, per la consacrazione dei vescovi, si rivolsero al Patriarca serbo ortodosso e al suo vicario, il vescovo Viktor, che rappresentava anche la minoranza serbo ortodossa a Shkodra. Furono ordinati due nuovi vescovi albanesi (Agathangjeli ed Evthimi) e si costituì un Sinodo con il vescovo Ambrozi di Gjirokastra e il vescovo serbo Viktor. Costantinopoli scomunicò tutti i membri del nuovo Sinodo albanese eccetto Viktor, nella vana attesa che fosse ammonito dal Patriarca serbo, il quale invece mantenne il silenzio.

Come contromossa, gli albanesi espulsero il vescovo Hierotheu e imprigionarono il vescovo Kristofor in un monastero, poiché ambedue erano stati originariamente inviati in Albania dal Patriarca ecumenico. La situazione raggiunse un punto morto in quanto la Chiesa albanese era praticamente diventata un paria nel mondo ortodosso. Costantinopoli e i greci, insieme a Mosca, condannarono l’autocefalia albanese, mentre serbi e rumeni mantennero un silenzio che confinava con il consenso. Ma, giunti al 1933, il Governo albanese era ormai scontento di Visarion, considerato un ostacolo al raggiungimento di un accordo con Costantinopoli, moralmente corrotto e con un passato equivoco. Come candidato di compromesso fu proposto come primate Kristofer, ma Costantinopoli gli preferì Evlogi Kurila, un altro sacerdote di origine albanese. Dopo varie trattative, alla fine il patriarca Beniamino I di Costantinopoli venne persuaso da re Zog I a riconoscere l’autocefalia dell’ortodossia albanese (17 aprile 1937). Visarion (Xhuvani) fu deposto e costretto a un ritiro forzato. Kristofor (Kissi) fu eletto primate metropolita di Tirana, Durrës e di tutta l’Albania e capo del terzo Sinodo, che era composto dal metropolita e dalle tre sedi episcopali (Korça, con il vescovo Evlogij; Berat, con il vescovo Agathangjel, e Gjirokastra, con il vescovo Pandeli). Lo stesso anno, a Korça, venne aperto un Seminario ortodosso.

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Il XX secolo

I cattolici. Prima della seconda guerra mondiale, i cattolici erano relativamente ben organizzati in due arcidiocesi: Shkodra (con diocesi suffraganee Pult, Sapa e Lezha) e Durrës, nel Sud. Inoltre, essi avevano l’abbazia nullius di Sant’Alessandro a Orosh in Mirdita, che dipendeva direttamente dalla Santa Sede, nonché l’Amministrazione Apostolica per l’Albania Meridionale sotto la giurisdizione di Durrës. I cattolici godevano di una buona reputazione grazie alle scuole dei gesuiti e dei francescani, aperte ad alunni di ogni religione. Subito dopo la seconda guerra mondiale, i cattolici albanesi avevano 253 fra chiese e cappelle, 2 seminari, 10 monasteri, 20 conventi, 15 orfanotrofi, 16 scuole e 10 istituti di beneficenza. Prima della seconda guerra mondiale, a Elbasan esisteva inoltre una piccola comunità (400 persone) di cattolici di rito bizantino. Il movimento risaliva ai secoli precedenti (1628-1765), quando piccole comunità di uniati albanesi punteggiavano la costa dell’Epiro, e ricevette nuova linfa nel 1895, quando un gruppo di abitanti della regione di Sphati chiese l’unione con Roma e un vescovo proprio. Nel 1900 un sacerdote ortodosso, il pope Jorgji Germanos, si convertì e fondò una parrocchia a Elbasan. Ma il movimento incontrò l’opposizione della monarchia albanese, impegnata nella costituzione di una Chiesa ortodossa autocefala, nonché quella degli stessi ortodossi. I cattolici albanesi di rito orientale furono in seguito assistiti dai monaci italo-greci di Grottaferrata nei pressi di Roma, alcuni dei quali erano di origine albanese (arbëresh). Fu con lo sguardo rivolto a questi cattolici albanesi di rito orientale che venne fondata, nel 1939, l’Amministrazione Apostolica dell’Albania Meridionale, come diocesi cattolica orientale nella quale veniva usato sia il rito bizantino sia quello latino. Durante la seconda guerra mondiale, i partigiani comunisti albanesi combatterono contro l’Italia fascista. Purtroppo gli italiani cercarono di favorire l’unione degli ortodossi albanesi con Roma per godere della protezione del Papa. Grazie all’intervento italiano, infatti, una chiesa uniate era stata aperta a Elbasan nel 1929. Tra gli ortodossi si diffuse la voce che il metropolita Kristofor era passato agli uniati. Tutto questo ebbe risultati disastrosi per la piccola comunità uniate di rito orientale, che, dopo la ritirata degli italiani, fu completamente liquidata.

Dopo la guerra, il potere passò a un regime comunista. Benché la Costituzione del 1946 garantisse formalmente la libertà di religione e di coscienza a tutti i cittadini, la realtà era ben diversa. Tutte le proprietà appartenenti alle organizzazioni religiose furono immediatamente confiscate dallo Stato. I religiosi furono ufficialmente bollati come fascisti dalla stampa e ad essi fu permesso di operare soltanto entro i confini della chiesa o della moschea. I sacerdoti stranieri furono costretti a lasciare l’Albania oppure arrestati. L’educazione religiosa nelle scuole fu bandita e sostituita dall’indottrinamento ateo. Furono chiusi sia i seminari sia gli istituti di beneficenza gestiti dalla Chiesa, come gli orfanotrofi e le case per anziani. Poiché il cattolicesimo, nell’immaginario popolare, veniva associato con la cultura italiana e aveva il suo centro fuori del Paese, la minoranza cattolica fu quella più duramente colpita dal regime. Nel 1945, il generale comunista Mehmet Shehu, vice di Enver Hoxha, dichiarò la Chiesa cattolica «un nido di reazione» e i gesuiti «perfidi cospiratori». Il nunzio apostolico Leone G. B. Nigris fu espulso come «persona non grata». I sacerdoti italiani furono o espulsi o arrestati e imprigionati insieme ai loro fratelli albanesi. Alcuni vennero giustiziati dopo i processi farsa del 1946. Due dei cinque vescovi e quaranta dei 180 sacerdoti furono uccisi. Gli ordini religiosi furono sciolti. Tra gli ecclesiastici e gli intellettuali cattolici condannati a morte spiccano figure di rilievo quali il sacerdote e autore teatrale Ndre Zadeja, i sacerdoti poeti Lazër Shantoja e Bernardin Palaj, lo scrittore Anton Harapi e il giornalista Gjon Shllaku. Il gesuita Dom Ndoc Nikaj, a cui si deve la paternità della prosa in ghego del XX secolo, morì in prigione. L’arcivescovo francescano Nikollë Vinçenc Prennushi (1885-1949) di Durrës, allievo dei gesuiti e noto studioso di folklore, fu arrestato, torturato e condannato ai lavori forzati, durante i quali morì d’infarto nell’ospedale della prigione. Sia Prennushi sia il suo collega, arcivescovo Gasperë Thaçi di Shkodra, rifiutarono di scendere a compromessi con Hoxha, che aveva chiesto loro personalmente di dar vita a una Chiesa nazionale separata da Roma. Thaçi in seguito fu condannato alla fucilazione, ma morì nel 1946 per cause naturali mentre era agli arresti domiciliari.

Già nel 1943 i comunisti albanesi, con il pretesto di smascherare una cospirazione, avevano chiuso il collegio dei gesuiti a Shkodra e arrestato tre padri, poiché i seminaristi albanesi avevano imprudentemente pubblicato e distribuito clandestinamente un manifesto. Il 4 marzo 1946 il superiore, p. Giovanni Fausti, e il rettore, p. Dajan Dajani, furono giustiziati. Lo studente gesuita («prefetto») Giacomo (Jak) Gardin fu condannato a 20 anni di lavori forzati e in seguito, liberato ed espulso, sopravvisse per raccontare la sua esperienza. Il padre Giuseppe (Zef) Valentini (1900-79), più tardi diventato un noto studioso della realtà albanese e un esperto di fama mondiale del diritto consuetudinario albanese, fu condannato a morte in contumacia, ma riuscì a fuggire in Italia, sua patria, dove proseguì i suoi studi al Pontificio Istituto Orientale. Il 24 aprile 1949 un altro massiccio processo farsa si tenne nei locali del cinema Republika a Shkodra, durante il quale numerosi ecclesiastici cattolici furono accusati di spionaggio su indicazione della Iugoslavia e giustiziati sommariamente. Nel 1949, il Governo diede ordine alle maggiori istituzioni religiose di redigere degli statuti. Poiché esse rifiutarono, il Governo consegnò a ognuna il proprio statuto. Gli ortodossi e i musulmani accettarono docilmente, ma la Gerarchia cattolica insistette per avere modifiche.

Alla fine il Governo accettò in via ufficiosa che la Gerarchia cattolica mantenesse il proprio legame con la Santa Sede, ma la stampa comunista, successivamente, diede una versione falsa dell’accordo, affermando che ogni vincolo tra la Gerarchia cattolica albanese e la Sede di Roma era interrotto. Nel 1951, un successivo decreto del Governo invalidò in modo unilaterale il legame della Chiesa cattolica con Roma e ristabilì la Chiesa cattolica indipendente d’Albania. L’arcivescovo francescano Bernardin Shllaku di Pult, l’unico vescovo cattolico ancora in libertà, fu costretto con la violenza a sottomettersi e venne messo alla testa di una Chiesa cattolica decimata, che continuò a operare almeno de iure. La pressione dello Stato si allentò sino alla fine degli anni Cinquanta, quando si fece di nuovo pesante, tanto che nel 1959 in Albania non era rimasto un solo vescovo cattolico residenziale. La Chiesa operava nella clandestinità con tre amministratori apostolici nominati dalla Santa Sede: Ernest Coba per Shkodra, Nikollë Troshani per Tirana-Durrës e Antonin Fishta per Pult. In quel periodo c’erano soltanto 14 sacerdoti liberi. Dei tre vescovi, solamente Troshani sopravvisse al comunismo: fu rilasciato da un campo di lavoro, come uno dei primi segni di liberalizzazione, dal successore di Hoxha, Ramiz Alia. Dopo il 1967, in Albania la Chiesa cattolica cessò formalmente di esistere. I pochi sopravvissuti furono costretti alla clandestinità.

I musulmani. Anche gli appartenenti alle altre religioni soffrirono persecuzioni come i cattolici, benché all’inizio i musulmani venissero trattati con maggiore indulgenza. Alla fine della seconda guerra mondiale, i musulmani sunniti albanesi possedevano 1.127 moschee, nelle quali c’erano 1.306 tra imam e muftì, guidate dal capo della comunità e da quattro gran muftì per Shkodra, Tirana, Korça e Gjirokastra. Nonostante re Zog I, nel suo tentativo di nazionalizzare la pratica religiosa, avesse troncato i rapporti ufficiali con i gruppi musulmani al di fuori dell’Albania, i musulmani costituivano circa il 69% della popolazione. Dopo il 1945 e l’avvento del comunismo, i musulmani, come tutti gli organismi religiosi, furono sempre più sottoposti al controllo dello Stato, in particolar modo dopo l’approvazione della legge del 26 novembre 1949, che imponeva alle comunità religiose di instillare nei loro membri la lealtà nei confronti dello Stato. I leader musulmani avevano bisogno dell’approvazione dello Stato. I muftì di Shkodra e Durrës rifiutarono di collaborare e vennero giustiziati, mentre altri furono imprigionati. Ma la grande maggioranza delle moschee (1.050) sopravvisse fino al 1967, quando, con una mossa che rispecchiava la Rivoluzione Culturale di Mao, molte furono demolite o destinate ad altro uso, malgrado il loro valore storico e culturale. Alcune furono delimitate da una recinzione e fatte visitare, dietro richiesta, a gruppi di storici dell’arte, come la moschea Et’hem Bey, una pietra miliare nella storia del Paese con l’interno insolitamente affrescato da dipinti che ritraggono piante e cascate. I bektashi e le altre sètte islamiche furono anch’essi repressi, e i loro monasteri cessarono di esistere. Nel 1946 Baba Murteza, noto leader bektashi, morì dopo essere stato torturato e fatto precipitare dalla finestra di un carcere. Dopo il 1967, rimasero aperti soltanto due teque bektashi, ma ambedue fuori dell’Albania: a Djakovica, in Kosovo, e a Taylor, vicino a Detroit, nel Michigan.

Gli ortodossi. Poiché molti partigiani comunisti provenivano dall’ambiente ortodosso o comunque erano toschi — parlavano il dialetto del Sud del Paese — la Chiesa ortodossa si trovò in una situazione migliore rispetto a quella cattolica. Malgrado questo, il metropolita Kristofor fu destituito nel 1948 con l’accusa di aver complottato insieme al Vaticano contro lo Stato e fu messo agli arresti domiciliari nella chiesa di San Procopio a Tirana. Diversi anni dopo fu trovato morto, apparentemente a causa di un infarto, nonostante il sospetto che fosse stato assassinato. Al posto di Kristofor fu insediato come metropolita Pashko († 1966), notoriamente un simpatizzante dei comunisti nel periodo della guerra. Pashko cercò di rafforzare i legami dell’ortodossia albanese con Mosca, in linea con la politica dello Stato (la rottura con Mosca era ancora di là da venire) e cominciò a ricevere la santa mirra (il crisma) da Mosca invece che da Costantinopoli. Alla morte di Pashko fu eletto Damian (1886-1973). Ma nel febbraio 1967, al culmine della rivoluzione culturale albanese, un gruppo di studenti del liceo Naim Frashëri di Durrës organizzò un movimento per chiudere tutte le chiese e le moschee albanesi.

Il 13 novembre 1967, l’Albania fu proclamata il primo Stato ateo del mondo dall’Assemblea del Popolo. Tutta la precedente legislazione che permetteva la pratica religiosa fu abrogata dalla nuova Costituzione, e tutti i servizi religiosi, pubblici e privati, furono banditi. Il Codice Penale del 1977 prevedeva sanzioni per tutte le attività religiose. Battezzare un bambino poteva significare la pena di morte, anche se in genere veniva sostituita da una detenzione. L’ottuagenario metropolita Damian sembra sia morto in prigione, anche se alcuni autori greci sostengono che morì agli arresti domiciliari nella sua casa a Pogradec. I vescovi di Elbasan, Pojan, Berat, Korça e Gjirokastra furono messi in prigione. I sacerdoti furono costretti a spretarsi, vennero rinchiusi nei campi di lavoro, uccisi o obbligati a entrare nella clandestinità. Fu vietato di dare ai neonati nomi cristiani e musulmani e furono incoraggiati nomi pagani «illirici» (Agim, Ilir, Teuta) o anagrammi marxisti (Marenglen: Marx+Engels+Lenin). Il 23 settembre 1975 fu approvata una legge che imponeva a tutti di assumere un nome di etimologia non religiosa. I nomi dei luoghi che commemoravano i santi furono cambiati: ad esempio, nel 1975 il villaggio di Shenvasil (San Basilio) fu rinominato Perparim (Progresso). Centinaia di chiese vennero semplicemente distrutte. Altre furono «riconvertite» in negozi di automobili, magazzini, scuderie, cinema o club. Quasi tutti i monasteri, compresi quelli di Narta, Vlora e Voskopoja, furono distrutti o adibiti a caserme. Soltanto il monastero di Ardenica si salvò dallo scempio poiché fu trasformato in un albergo.

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Dopo il comunismo

Gli ortodossi. Dopo la caduta del comunismo, la legislazione antireligiosa venne ufficialmente abrogata l’8 maggio 1990. I missionari occidentali giunsero numerosi nel Paese, gli ordini religiosi (francescani e gesuiti) tornarono a operare, e furono reintegrate sia la gerarchia cattolica sia quella ortodossa. Prima della persecuzione, gli ortodossi avevano 330 parrocchie e 25 monasteri. Durante le persecuzioni erano stati distrutti 608 tra monasteri e chiese. Nel gennaio 1991, Anastasios, vescovo di Androusa, un erudito greco che era stato missionario in Africa Orientale e aveva scritto sull’islàm, fu inviato in Albania dal Patriarca ecumenico Demetrio per valutare la situazione e operare come esarca patriarcale, con il compito di stabilire contatti con le autorità governative e con ciò che rimaneva della Chiesa ortodossa. Le autorità albanesi sollevarono delle obiezioni, specialmente per l’etnia greca dell’esarca, ma il 17 luglio 1991 gli fu finalmente permesso di entrare a Tirana. Fu convocata un’Assemblea generale di ecclesiastici e laici il 1° e il 2 agosto 1991, ma furono rintracciati soltanto 15 sacerdoti (solamente 22 sembra fossero i sopravvissuti alle persecuzioni e di questi soltanto tre erano ancora vivi nel 2003) e 30 laici che potessero prendervi parte.

Il 24 giugno 1992, il Patriarca ecumenico Bartholomaios e il suo Sinodo nominarono Anastasios arcivescovo di Durrës, Tirana e di tutta l’Albania e quattro vescovi. Dalla morte del vescovo Kosma nel 2000, il Sinodo è composto soltanto da tre vescovi. Restano ancora le tensioni all’interno della Chiesa ortodossa tra gli albanesi e i membri della minoranza greca, i quali preferirebbero dipendere direttamente da Costantinopoli. Nel 1992, in un albergo abbandonato di Durrës, fu aperto un seminario con circa 60 studenti, dedicato alla Santa Resurrezione, più tardi trasferito in un villaggio, Shënavlash (San Biagio), fuori città, all’interno di un monastero andato in rovina. Finora circa 128 sacerdoti ortodossi albanesi hanno completato gli studi in seminario, ma tra gli ortodossi si avverte ancora una forte penuria di preti. A partire dal 1991 sono state costruite 83 nuove chiese, sono stati restaurati cinque monasteri e 72 monumenti ecclesiastici e sono state riparate più di 140 chiese.

I cattolici. Sono stati ristabiliti i rapporti diplomatici con la Santa Sede dopo il ripristino della libertà religiosa (dicembre 1990) e la definitiva caduta del comunismo (1991). Un nunzio apostolico, l’arcivescovo John Bulaitis, risiede a Tirana, e ci sono attualmente due arcidiocesi: Tirana-Durrës, con l’arcivescovo Rrok Kola Mirdita, e Shkodra-Pult con l’arcivescovo Angelo Massafra, francescano, a cui va aggiunta l’Amministrazione Apostolica dell’Albania Meridionale, con il vescovo Hil Kabashi, francescano, che oggi celebrano principalmente secondo il rito latino. Tre diocesi cattoliche (Lezha, Sapa e Reshen) sono per ora rette da amministratori apostolici senza carattere episcopale. Sono state aperte varie centinaia di chiese cattoliche, parte delle quali in edifici prefabbricati. In effetti, oggi si registra un rinnovato interesse nei confronti del cattolicesimo tra gli intellettuali e i giovani, che ne apprezzano l’apporto alla cultura albanese e lo considerano un ponte con l’Occidente da essi idealizzato, benché il cattolicesimo resti una religione di minoranza. La buona reputazione del cattolicesimo è probabilmente dovuta anche alla popolarità di personaggi cattolici locali come la beata Madre Teresa di Calcutta, un’albanese di Skopje, che già nel 1989 visitò l’Albania ancora comunista, incontrando Nexmija Hoxha, moglie dell’ex dittatore, e inviando le sue missionarie della Carità sul suolo albanese nel 1990. È stato dato il suo nome sia all’aeroporto di Tirana sia a una grande piazza della capitale. Nel 1993, lo stesso Giovanni Paolo II visitò l’Albania. Dopo aver trascorso metà della sua vita in prigione, padre Mikel Koliqi (1902-97) fu creato primo cardinale albanese nel 1994. Oltre alla sua opera come sacerdote, a Koliqi è anche attribuito il testo delle prime opere liriche albanesi. Anche francescani, gesuiti e salesiani hanno fatto ritorno in Albania. Il Pontificio Seminario Albanese di Shkodra, gestito dai gesuiti, è stato riaperto nel settembre 1991, e un nuovo Seminario diocesano, intitolato a Nostra Signora del Buon Consiglio, è stato istituito nell’ottobre 1998.

Gli islamici. Anche l’islàm ha ripreso vigore a partire dal 1991, soprattutto grazie al sostegno di Arabia Saudita, Kuwait, Abu Dhabi ed Egitto, che hanno fornito aiuti umanitari e restaurato o costruito moschee in vari luoghi del Paese. Le moschee hanno riaperto all’inizio del 1991, quando si tenne la prima celebrazione pubblica del ramadan. Oggi, quasi tutte le città e i villaggi con popolazione musulmana hanno una moschea. I musulmani sunniti albanesi sono guidati da Hafiz Sabri Koçi, che ha trascorso 20 anni in prigione e nei campi di lavoro forzato. Nel dicembre 1992, l’Albania è entrata a far parte dell’Organizzazione degli Stati Islamici in nome di motivazioni di carattere religioso, una decisione ampiamente criticata dall’opinione pubblica albanese, perché contrasta con l’orientamento occidentale della nazione e i suoi legami con l’Europa, con una possibile futura incorporazione nell’Unione Europea e nella NATO. Anche i bektashi furono ristabiliti il 27 gennaio 1991, quando a Tirana fu organizzata una Commissione a tal fine. Un centro mondiale della setta fu istituito in un teqe fuori Tirana e riaperto con la celebrazione del Nuovo Anno Persiano (Nevruz) il 22 marzo 1991. In Albania è presente anche un certo numero di altre religioni. A Tirana sono attivi alcuni missionari protestanti. I bahai giunsero per la prima volta in Albania nel 1930 e sono tornati nel 1992. Gli ebrei non furono perseguitati dopo la seconda guerra mondiale, nonostante i legami dell’Albania con i fascisti, anzi i confini albanesi furono addirittura aperti a un certo numero di ebrei rifugiati, ma oggi la maggior parte di essi sono emigrati in Israele, dove formano la loro comunità etnica.

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Conclusione

Malgrado il tradizionale mutuo rispetto che vige tra i credenti albanesi — la religione molto raramente, se non mai, è stata causa di faide — dopo la caduta del comunismo si sono verificati alcuni incidenti inquietanti, anche se in alcuni casi non si sa con certezza se debbano essere attribuiti ai fondamentalisti religiosi o ai nostalgici neocomunisti. Teste di maiale sono state lanciate all’interno di qualche moschea, alcuni cimiteri cattolici sono stati profanati, e affreschi di chiese ortodosse sono stati deturpati. Nel settembre 1996, alcuni musulmani hanno occupato abusivamente due monasteri ortodossi nelle vicinanze di Saranda e Gjirokastra, costruendo una baraccopoli sul terreno dei monasteri e sfigurando gli affreschi. Uno degli incidenti peggiori si è verificato nella chiesa ortodossa dell’Arcangelo Michele, a Voskopoja, monumento protetto dallo Stato come bene culturale. Tre giovani musulmani albanesi, che avevano trascorso l’estate in un campo organizzato da fondamentalisti islamici provenienti dal Medio Oriente, sono entrati nella chiesa e hanno deturpato gli affreschi, togliendo gli occhi ai dipinti dei santi e scarabocchiando sui muri: «Allah è grande!». Tale gesto è stato condannato sia dai cristiani sia dai musulmani, e tuttavia esso ha suscitato una vivace discussione tra gli intellettuali di tutte le fedi. Nonostante la presenza di missionari islamici provenienti dai Paesi arabi mediorientali, dalla Turchia e dall’Iran, che hanno fatto molto per ripristinare la pratica dell’islàm popolare all’interno del Paese, gli albanesi oggi sono troppo occupati nei problemi della sopravvivenza quotidiana in una situazione economicamente disastrosa per occuparsi delle cose dello spirito. Da sempre pensatori più pragmatici che astratti e storicamente indifferenti nei confronti della religione, gli albanesi mettono in cima alle loro priorità gli obiettivi politici e sociali piuttosto che l’espansionismo islamico, anche nel vicino Kossovo, nonostante i serbi dichiarino il contrario.

L’Albania dei nostri giorni rimane una società profondamente dominata dal secolarismo. Nel censimento del 2001, è stato deciso di non inserire una domanda relativa all’affiliazione religiosa. Le statistiche desunte da altre fonti sulle stime del numero dei credenti in Albania (musulmani 65%, ortodossi 20%, cattolici 13%, altri 2%) mostrano un piccolo cambiamento in favore dei cristiani: musulmani 60%, ortodossi 25% e cattolici 15%.

 

1 Il fatto di essere stata incorporata per lungo tempo (1385-1912) nell’Impero ottomano ha favorito l’islamizzazione di buona parte dell’Albania centrale e meridionale. Molte conversioni furono volontarie: convertirsi significava godere di privilegi economici e sociali ed entrare a far parte della comunità ottomana. I critici affermano che gli albanesi musulmani hanno perso la loro appartenenza etnica e sono diventati «turchi». Altri, al contrario, sostengono che l’islàm ha evitato agli albanesi di essere assorbiti dai serbi ortodossi, in quanto molti albanesi avevano già adottato nomi e cultura serbi prima di aderire all’islàm. I musulmani albanesi sono sunniti, ma hanno subìto una forte influenza da parte dei dervisci bektashi. Questi incoraggiavano le pratiche sincretistiche (pellegrinaggi ai reliquari di santi cristiani, un pasto «eucaristico» condiviso, cibo e digiuno cristiano) come anche bere vino e ignorare il ramadan e altre credenze poco ortodosse, quali la reincarnazione, che tradiscono un’origine gnostica. Orientati più verso la Shi’a che verso la sunna ortodossa, i bektashi immaginavano una sorta di trinità islamica (Allah, Maometto e Alì) e predicavano una fratellanza universale e panteistica. Poiché erano più aperti degli altri musulmani nei confronti del cristianesimo, esercitavano una certa attrattiva sui cristiani convertiti, in particolare tra i giannizzeri, molti dei quali, da ragazzi, erano stati rastrellati e strappati alle loro famiglie cristiane contadine. Essi, nell’ultima parte del XIX secolo, riuscirono a svolgere un ruolo significativo all’interno del movimento per l’unificazione dell’Albania sulla base della lingua piuttosto che della religione. Naim Frashëri, un eminente bektashi, leader del Rinascimento albanese, cercò di attribuire alla setta bektashi un carattere nazionale, con un dede albanese come capo e una terminologia religiosa albanese per sostituire quella mutuata dal turco.

Altre sètte (tariqat) di dervisci presenti in Albania comprendono gli halveti e, in misura minore, i rifa’i (dervisci urlanti), come anche un certo numero di gruppi più piccoli. Gli appartenenti alle sètte dervisce avevano i loro centri o monasteri (teqe), ma nella vita quotidiana somigliavano più a membri delle confraternite laiche cattoliche che a monaci. Alcuni musulmani, detti laramane (da un vocabolo che in origine significava pezzato o chiazzato), professavano il cristianesimo in segreto. Spesso erano i soli maschi della famiglia a convertirsi all’islàm per evitare tasse gravose o per ottenere il diritto di portare armi, mentre le loro mogli rimanevano cristiane. Quando un sacerdote veniva chiamato per amministrare i sacramenti alla donna cristiana, anche il marito, ufficialmente musulmano, spesso chiedeva di fare la comunione.

L’Albania era nota per una grande varietà di credenze religiose: sopravvivenze del paganesimo, sincretismo e indifferenza religiosa. Un proverbio diceva: la fede è decisa dalla spada, il cuius regio albanese. Un’altra citazione del poeta Pashko Vasa (1825-92) acquisì implicazioni inquietanti quando, in anni successivi, fu usata come slogan per promuovere l’ateismo ufficiale: «Non guardare alla chiesa o alla moschea: la fede dell’Albania è l’Albania!». A volte i musulmani chiedevano di ricevere il battesimo cristiano per ragioni che avevano ben poco a che vedere con la fede religiosa: ritenevano che esso avrebbe loro allungato la vita, che li avrebbe protetti dai lupi e che avrebbe impedito ad essi di puzzare come cani. I frati francescani inorridivano quando gli albanesi li invitavano nelle loro case dicendo: «Qui noi professiamo tutte le fedi: cattolica, musulmana e ortodossa», e lo stesso avveniva quando i cattolici si recavano a visitare i guaritori musulmani o i dervisci. È interessante il fatto che il primo a tradurre il Corano in albanese sia stato Ilo Mitkë Qafëzezi, un cristiano. I musulmani albanesi in genere veneravano san Giorgio e la Vergine Maria. I bektashi celebravano anche il giorno di san Nicola e il Natale. La compenetrazione tra religioni era reciproca: i cristiani si recavano da buoni vicini alle celebrazioni islamiche.

2 Millet è la comunità religiosa non musulmana nella quale il capo spirituale gestisce anche l’autonomia amministrativa data dal patto di protezione con i governanti turchi. Ogni millet è autorizzato ad applicare proprie leggi e a mantenerle sotto la giurisdizione del proprio capo spirituale, nominato dal sultano e responsabile della buona condotta della propria comunità su cui esercita un’autorità quasi assoluta.

3 I primi gesuiti (tre siciliani: Giuseppe Guagliata, Vincenzo Basile e Salvatore Bartoli) giunsero in Albania soltanto nel 1841. Ma i gesuiti avevano già fondato un collegio illirico a Loreto, in Italia (1574), per albanesi e slavi. Ad esso fece seguito il Clementinum a Roma (1580). Il progetto di creare un istituto simile a Bologna (1640) non andò a buon fine, ma un collegio illirico, con personale non gesuita, fu avviato a Fermo con studenti provenienti dall’Albania settentrionale. Più significativa fu la fondazione di un istituto gesuita — il Pontifico Collegio Albanese — a Shkodra nel 1859. I gesuiti inoltre svolgevano la loro missione anche tra la gente. La «missione volante» (1880-1932), gestita prima da gesuiti italiani e successivamente da gesuiti albanesi, ne è la testimonianza più eloquente. Tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo, sul territorio albanese erano attive circa 275 chiese cattoliche. La maggior parte erano dedicate alla Vergine Maria (42) e a san Nicola (40), anche se una misteriosa santa Veneranda (32) veniva subito al terzo posto. Si trattava in realtà di una forma cristianizzata del culto della dea Venere, che fu associata al venerdì in virtù del suo nome latino e greco (Paraskevi): in tal modo teneva i cattolici nelle chiese e lontano dalla moschea il venerdì, giorno sacro dei musulmani. Un secolo più tardi, al primo Concilio della Chiesa albanese (1703), Vinkentije Zmaeviæ, arcivescovo cattolico di Bar, cercò di promuovere l’applicazione dei decreti del Concilio di Trento in Albania, di arginare la marea di conversioni all’islàm e di adottare una politica più severa nei confronti dei criptocristiani. Il quarto Concilio dei vescovi cattolici albanesi (1895) proclamò Nostra Signora di Shkodra (Zoja e Skhodrës) patrona nazionale, benché la sua icona, secondo quanto si dice, avesse già attraversato l’Adriatico nel 1467, quando approdò a Genazzano (Roma), dove in suo onore fu eretta la chiesa di Nostra Signora del Buon Consiglio, una meta obbligata di pellegrinaggio sia per gli albanesi sia per gli italiani di retaggio albanese.

Dal sito http://www.laciviltacattolica.it/

© La Civiltà Cattolica 2005 IV 338-352 quaderno 3730

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