E ardhmja e natës agimi. Ti e prite.
E ardhmja e agimit dita e plotë. Ti e rrove.
E ardhmja e ditës mbrëmja. Ti u krodhe në të.
E ardhmja e mbrëmjes nata. Ti me të u përziejte.
Në ciklin e vazhdueshëm të ndjenjavet të tua të ndryshme
u ndodh – aty për aty pa i vënë re – mungesa
e njëi agimi e njëi dite e njëi mbrëmjeje e njëi nate:
një zbrazëti e kujteses!
Humbe një nga të tre shpirtrat e tu.
Sot meshon greqisht e dashuron italisht.
Në librat vetëm rri shkruar si ngjarja ndodhi
se ti shpirtra pate tre.
Nonostante lo avessi sulla scrivania da tempo, non avevo ancora aperto il libro di poesie di Giuseppe Schirò Di Maggio dal titolo bilingue “Metaforë / Metafora”. Ancora felice per aver capito buona parte del contenuto delle relazioni in albanese dell’ultimo convegno su Skanderbeg (svoltosi tra Palermo e S. Cristina Gela il 9 e 10 febbraio scorsi), ho voluto testare nuovamente la mia preparazione in fatto di lingua leggendo qualche verso del poeta che ho conosciuto proprio in quell’occasione.
Aprendo questo libricino verde, sono rimasta molto sorpresa dal fatto che qualcuno avesse dedicato dei versi al mio paese e che questi versi siano stati scritti in arbëresh, una lingua che capisco poco. Fortunatamente, almeno in questo caso, sono riuscita a capire tutto e ad afferrare il significato delle parole arbëreshe che descrivono meglio della traduzione italiana il pensiero e lo stato d’animo dell’autore.
Prima di adesso, avevo avvertito lo stesso sconforto per l’anima perduta del mio paese solamente nei lunghi discorsi fatti con mio padre, quando, cercando di riesumare le anime del “dite mbrëmja” vissuto da Mezzojuso qualche secolo fa, si parla per ore del Monastero Basiliano, dei suoi rapporti con l’Oriente, del suo ruolo importante di baluardo della cultura, della sua biblioteca ricca di Cinquecentine, Incunaboli e Aldine (che amo sfogliare per percepire il sapore della stessa cultura che, prima di me, hanno assaporato quei monaci di cui ora restano racconti e documenti dalla veridicità a volte discutibile – o no? -); si discute spesso delle icone che più di quattrocento anni fa sono state “scritte” da mani sapienti e che ancora oggi molti fedeli, spesso inconsapevoli della loro preziosità spirituale e artistica, venerano durante le liturgie e le funzioni religiose celebrate in greco. Si parla anche della memoria perduta, di quella ricchezza culturale che gli albanesi sono riusciti a trasmettere ai propri discendenti; cultura che si è tramandata, forse in modo meno diffuso che in passato, fino ad oggi.
A proposito di mio padre, di lui apprezzo molto la volontà e l’impegno saldo che mette nelle ricerche che porta avanti senza interruzioni ormai da trent’anni o più. Ammiro la forza che mette quando scava nel passato per dare spiegazione a qualcosa di cui ha sentito parlare e conosce poco o nulla. Lo ammiro perché, dalle frequentazioni giovanili (e non) con chi conserva e usa l’arbëresh, ha tirato fuori il suo desiderio di constatare se e come vivessero i nostri antenati con tre anime.
Seppure nei limiti dovuti agli ostacoli creati dal tempo, mi ha dimostrato che si può riscoprire molto di se stessi (e non, come apparentemente si pensa, soltanto degli altri) studiando i libri e i manoscritti giunti fino a noi. Basta solo avere il coraggio di farlo.
“Humbe një nga të tre shpirtrat e tu.”. Alla fine di agosto 2005 sono partita per Tirana, per studiare per un mese lingua albanese all’università. Ero sicura che, una volta arrivata lì, avrei riscoperto la mia identità arbëreshe perchè qualcuno sarebbe stato capace di insegnarmi qualcosa che ancora non conoscevo, chissà cosa.
A proposito di mio padre, di lui apprezzo molto la volontà e l’impegno saldo che mette nelle ricerche che porta avanti senza interruzioni ormai da trent’anni o più. Ammiro la forza che mette quando scava nel passato per dare spiegazione a qualcosa di cui ha sentito parlare e conosce poco o nulla. Lo ammiro perché, dalle frequentazioni giovanili (e non) con chi conserva e usa l’arbëresh, ha tirato fuori il suo desiderio di constatare se e come vivessero i nostri antenati con tre anime.
Seppure nei limiti dovuti agli ostacoli creati dal tempo, mi ha dimostrato che si può riscoprire molto di se stessi (e non, come apparentemente si pensa, soltanto degli altri) studiando i libri e i manoscritti giunti fino a noi. Basta solo avere il coraggio di farlo.
“Humbe një nga të tre shpirtrat e tu.”. Alla fine di agosto 2005 sono partita per Tirana, per studiare per un mese lingua albanese all’università. Ero sicura che, una volta arrivata lì, avrei riscoperto la mia identità arbëreshe perchè qualcuno sarebbe stato capace di insegnarmi qualcosa che ancora non conoscevo, chissà cosa.
Paradossalmente, chiunque abbia saputo che sono arbëreshe mi ha subito guardata con affetto e mi ha sempre fatto notare che noi arbëresh siamo il sangue disperso della vera Albania, quella che loro non riescono quasi più a trovare.
A questo proposito, mi ha colpito una cosa dell’incontro, in apparenza formalissimo, col direttore dell’Istituto di Scienze Filologiche dell’Accademia delle Scienze di Tirana: dopo quasi tre minuti di presentazioni e spiegazioni sul motivo della nostra visita, lui ha guardato sia me che il ragazzo che era con me (era lui a parlargli in albanese) e ha detto “Abbiamo lo stesso sangue”.
Naturalmente non ho capito subito ciò che aveva detto, stavo ancora tentando di tradurre a mente le frasi che intendevo dire poco dopo. Solo quando mi hanno spiegato, mi sono resa conto che quella frase che avevo già sentito dire ad alcuni ragazzi albanesi giorni prima non era qualcosa di spontaneo e creato sul momento. Questa cosa mi ha fatto molto pensare: forse non dovevo aspettare che qualcuno mi spiegasse cosa il mio paesino avesse perduto; dovevo solamente imparare ad amare di più le mie radici e ad aumentare la mia “sete di sapere” dal loro amore per il popolo che 500 anni fa ha lasciato quei luoghi.
Proprio a causa di queste forme di “affetto” che molti manifestavano verso noi arbëresh, mi sono sentita in colpa per aver trascurato, anche solo parzialmente, quella parte di me in cui qualcun altro confidava per mantenere la propria memoria legata con un filo sottile al passato.
“E ardhmja e mbrëmjes nata. Ti me të u përziejte.”. La notte è quasi riuscita a spegnere gli animi di una comunità che raramente oggi va fiera delle proprie origini e che a volte nega di essere arbëreshe, forse per timore di manifestare una palese “diversità” rispetto ai paesi vicini (che io, da un’ottica opposta a quella diffusa, definisco, invece, “normali”, con un pizzico di rispettosa superiorità), di non avere la capacità di tenere sulle spalle un ricco carico di cultura che i secoli hanno voluto trasmetterci e affidarci.
Spesso, però, da buona ragazzina ottimista, penso che questa non sia una “notte”, ma solo un’eclissi momentanea e che proprio questo “vuoto di memoria” di cui si parla nella poesia possa riuscire a scuotere le menti non atrofizzate dalla “realtà televisiva” dell’ “apparenza-prima-di-tutto” per condurle al risveglio. Sono sicura di non essere la sola a pensare e ad aspettare un nuovo e rinnovato interesse verso la nostra anima arbëreshe; so che molte altre persone si chiedono il perché della propria diversità e vogliono riscoprire “shpirtrën e tretë”.
Tutto ciò, ad esempio, è stato dimostrato dalla partecipazione di un buon numero di docenti e universitari al corso “Rrënjët tona”, tenutosi tra ottobre e novembre 2005 presso l’Istituto Comprensivo “G. Buccola” qui a Mezzojuso; il primo di una lunga serie di corsi, promossi da vari enti ed associazioni, che mirano a risvegliare l’interesse verso le nostre tradizioni.
A proposito: nei giorni scorsi ho presentato la mia iscrizione al corso di “Lingua e Cultura Arbëreshe” organizzato nell’ambito del progetto “Arbëria 2” e ho notato che molti altri universitari di Mezzojuso si sono già iscritti.
Che lo sconforto per la perdita della memoria delle proprie radici abbia motivi in più per cedere il posto all’ottimismo? Lo dimostreranno gli eventi di quella che spero sia una rinascita di Mezzojuso, un rinnovamento forse a passo di lumaca che una comunità intelligente, che non vuole continuare a spegnersi lentamente, di certo dovrà attuare per non soccombere.
Infine, queste parole resteranno semplici provocazioni, o qualcun altro tra uno, due, cinque o dieci anni avrà voglia di studiare l’albanese o l’arbëresh di Mezzojuso (perduto ma testimoniato, tra gli altri, da Nicolò Figlia - vedi) e smetterà di negarne l’esistenza, negando, a sua volta, con somma ignoranza l’evidenza?
Tornerà il momento in cui quei libri in cui è scritta la nostra storia saranno oggetto dell’attenzione di “molti”, desiderosi di scavare fino alle proprie radici per riscoprirne la ricchezza e la possenza?
Magari, una volta risvegliati gli animi, tra cent’anni si sentirà parlare nuovamente anche qui dell’unico sangue che lega noi alla “patria perduta” e si sentirà dire “të dua” o “zemra ime” accanto agli italianissimi “ti amo” o “piccolo mio”.
Giusy Di Marco
A questo proposito, mi ha colpito una cosa dell’incontro, in apparenza formalissimo, col direttore dell’Istituto di Scienze Filologiche dell’Accademia delle Scienze di Tirana: dopo quasi tre minuti di presentazioni e spiegazioni sul motivo della nostra visita, lui ha guardato sia me che il ragazzo che era con me (era lui a parlargli in albanese) e ha detto “Abbiamo lo stesso sangue”.
Naturalmente non ho capito subito ciò che aveva detto, stavo ancora tentando di tradurre a mente le frasi che intendevo dire poco dopo. Solo quando mi hanno spiegato, mi sono resa conto che quella frase che avevo già sentito dire ad alcuni ragazzi albanesi giorni prima non era qualcosa di spontaneo e creato sul momento. Questa cosa mi ha fatto molto pensare: forse non dovevo aspettare che qualcuno mi spiegasse cosa il mio paesino avesse perduto; dovevo solamente imparare ad amare di più le mie radici e ad aumentare la mia “sete di sapere” dal loro amore per il popolo che 500 anni fa ha lasciato quei luoghi.
Proprio a causa di queste forme di “affetto” che molti manifestavano verso noi arbëresh, mi sono sentita in colpa per aver trascurato, anche solo parzialmente, quella parte di me in cui qualcun altro confidava per mantenere la propria memoria legata con un filo sottile al passato.
“E ardhmja e mbrëmjes nata. Ti me të u përziejte.”. La notte è quasi riuscita a spegnere gli animi di una comunità che raramente oggi va fiera delle proprie origini e che a volte nega di essere arbëreshe, forse per timore di manifestare una palese “diversità” rispetto ai paesi vicini (che io, da un’ottica opposta a quella diffusa, definisco, invece, “normali”, con un pizzico di rispettosa superiorità), di non avere la capacità di tenere sulle spalle un ricco carico di cultura che i secoli hanno voluto trasmetterci e affidarci.
Spesso, però, da buona ragazzina ottimista, penso che questa non sia una “notte”, ma solo un’eclissi momentanea e che proprio questo “vuoto di memoria” di cui si parla nella poesia possa riuscire a scuotere le menti non atrofizzate dalla “realtà televisiva” dell’ “apparenza-prima-di-tutto” per condurle al risveglio. Sono sicura di non essere la sola a pensare e ad aspettare un nuovo e rinnovato interesse verso la nostra anima arbëreshe; so che molte altre persone si chiedono il perché della propria diversità e vogliono riscoprire “shpirtrën e tretë”.
Tutto ciò, ad esempio, è stato dimostrato dalla partecipazione di un buon numero di docenti e universitari al corso “Rrënjët tona”, tenutosi tra ottobre e novembre 2005 presso l’Istituto Comprensivo “G. Buccola” qui a Mezzojuso; il primo di una lunga serie di corsi, promossi da vari enti ed associazioni, che mirano a risvegliare l’interesse verso le nostre tradizioni.
A proposito: nei giorni scorsi ho presentato la mia iscrizione al corso di “Lingua e Cultura Arbëreshe” organizzato nell’ambito del progetto “Arbëria 2” e ho notato che molti altri universitari di Mezzojuso si sono già iscritti.
Che lo sconforto per la perdita della memoria delle proprie radici abbia motivi in più per cedere il posto all’ottimismo? Lo dimostreranno gli eventi di quella che spero sia una rinascita di Mezzojuso, un rinnovamento forse a passo di lumaca che una comunità intelligente, che non vuole continuare a spegnersi lentamente, di certo dovrà attuare per non soccombere.
Infine, queste parole resteranno semplici provocazioni, o qualcun altro tra uno, due, cinque o dieci anni avrà voglia di studiare l’albanese o l’arbëresh di Mezzojuso (perduto ma testimoniato, tra gli altri, da Nicolò Figlia - vedi) e smetterà di negarne l’esistenza, negando, a sua volta, con somma ignoranza l’evidenza?
Tornerà il momento in cui quei libri in cui è scritta la nostra storia saranno oggetto dell’attenzione di “molti”, desiderosi di scavare fino alle proprie radici per riscoprirne la ricchezza e la possenza?
Magari, una volta risvegliati gli animi, tra cent’anni si sentirà parlare nuovamente anche qui dell’unico sangue che lega noi alla “patria perduta” e si sentirà dire “të dua” o “zemra ime” accanto agli italianissimi “ti amo” o “piccolo mio”.
Giusy Di Marco
nga Munxifsi