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5.Sei Anni di Fuoco

Mentre Ferdinando vince la sua battaglia decisiva, il Castriota deve fronteggiare tre armate turche in un solo mese. Un’estate rovente, quella del 1462, in cui il condottiero albanese annienta prima l’esercito di Sinan Pashà e Hussein Beg (catturando quest’ultimo), poi quello guidato da Yussuf Beg e, infine, le milizie di Caradza Beg. Sfruttando questi successi, gli Albanesi chiedono al Castriota di negoziare delle buone condizioni di pace con i Turchi. Giorgio si rifiuta e prende tempo; alcune fonti sostengono che la firma del Castriota arrivi nel 1463, altre invece lo negano. Se sull’esistenza di questo documento sussistono molti dubbi, è invece certa quella del trattato stipulato fra il Castriota e Venezia, sua vecchia nemica, il 20 Agosto del 1463. L’oggetto dell’accordo con Venezia è, come immaginabile, la guerra contro Maometto II. La Serenissima si impegna a sostenere Scanderbeg con uomini e mezzi, e a garantire al figlio di lui, Giovanni Castriota, l’ingresso nella Nobiltà Veneziana. Il Castriota si premunisce anche per l’eventualità in cui, sconfitto dai Turchi, sia costretto a fuggire; sarà Venezia a ospitarlo, e a fornirgli supporto per l’eventuale riconquista dell’Albania. Quando Gabriele Trevisan, nell’Ottobre dello stesso anno, arriva in Albania alla testa di 1.300 soldati veneziani, 2.000 ducati per pagarne altri e tutti gli arretrati delle pensione promessa a Scanderbeg anni prima, il Castriota capisce che – per ora – può fidarsi di Venezia.

Un paio di settimane dopo, Pio II indice una nuova crociata contro l’Impero Ottomano, cui si aggregano sia gli Albanesi che i Veneziani. Il Castriota attacca subito i territori turchi confinanti e riesce a razziare più di centomila capi di bestiame fra vacche, maiali e cavalli. La crociata sembra partire quindi con il piede giusto; e addirittura destinata a grandi risultati quando Pio II in persona si reca ad Ancona per raggiungere l’altra sponda dell’Adriatico. Il Papa è partito da Roma già ammalato, e pochi giorni dopo essere giunto ad Ancona, spira a causa di un attacco febbrile proprio mentre le vele veneziane iniziano a stagliarsi all’orizzonte.

Il 14 Agosto 1464, a poche ore di distanza dalla morte del Papa, il Castriota (all’oscuro dell’evento luttuoso), sconfigge un nuovo generale ottomano, Sheremet Beg, nei pressi del Lago di Ocrida. I festeggiamenti albanesi hanno breve durata; la notizia del trapasso di Pio II arriva come un fulmine a ciel sereno e lascia tutti interdetti. Ora, senza poter più contare sull’intermediazione del Pontefice per ricevere aiuto dagli altri sovrani europei, al Castriota rimane il supporto di Venezia, ormai sempre più intermittente.

La furia di Maometto II sta per abbattersi nuovamente su di lui. Questa volta, il conquistatore di Costantinopoli sceglie di spedire contro gli Albanesi un loro connazionale, il rinnegato Ballaban Pashà.

Rispetto agli altri generali ottomani, Ballaban conosce molto bene il territorio e preferisce le azioni di guerriglia alle grandi battaglie campali. Dopo aver rischiato egli stesso di essere catturato da Ballaban, il Castriota lo sconfigge nei pressi di Ocrida; una vittoria che Giorgio maledirà per tutta la vita. Durante lo scontro infatti, finiscono nelle mani del nemico ben tredici dei suoi migliori ufficiali, compreso Mosè di Dibra. Nei giorni seguenti – siamo nell’Aprile del 1465- il Castriota offre al Sultano tutto l’oro a sua disposizione e centinaia di prigionieri per riscattare i suoi capitani. Maometto II è però irremovibile. Appena Mosè di Dibra e gli altri Albanesi arrivano a Costantinopoli in catene, Maometto li fa scorticare vivi nella pubblica piazza. Fra tutti i cronisti, è Barlezio a descrivere il tormento nel modo più particolareggiato:

“Con una crudeltà delle più detestabili commandò che tutti si scorticassero vivi ed a liste affine [a strisce sottili] de render più durabile il tormento; e non saziato della pena dei vivi, fece gittar i lor cadaveri divisi in pezzi ad esser divorati dai cani.”

Mosè di Dibra, che anni prima ha tradito Scanderbeg ricevendo poi il suo perdono, resiste al supplizio per quindici giorni prima di morire. Il boia e la folla rimangono ammutoliti.

Da quel momento, il Castriota non fa più prigionieri. Uno dopo l’altro, sconfigge tutti i contingenti turchi e fa giustiziare i sopravvissuti. La battaglia più sanguinosa avviene nello stesso luogo in cui Ballaban è riuscito a catturare gli ufficiali albanesi. Gli Ottomani provano a difendersi, ma il Castriota li fa tutti a pezzi. Maometto II è furioso. Tredici anni prima ha conquistato Costantinopoli, mentre ora non riesce ad avere ragione di quel manipolo di “ladri di cavalli” che hanno già avuto ragione del padre. Nel 1466, si mette a capo del più grande esercito che abbia mai raggiunto l’entroterra albanese (oltre 100.000 uomini) e cinge d’assedio Croia. Tanush Topia, il miglior comandante di Scanderbeg, difende la città con 4.400 uomini. Il Sultano bombarda il forte e cerca di corrompere i difensori con tesori immensi, ma gli Albanesi non cedono un passo. Il Castriota, nonostante abbia ormai superato i sessanta, continua a fiaccare le forze turche con le solite incursioni di cavalleria. Con la situazione in stallo, Maometto II torna indietro, lasciando sul luogo 80.000 uomini e Ballaban Pashà. Prima di iniziare la marcia verso Costantinopoli però, il Sultano sfoga la sua rabbia sugli abitanti della città di Chidna, massacrandoli dal primo all’ultimo. I dintorni di Croia sono completamente in mano agli Ottomani, tanto che Ballaban trova il tempo di far costruire la fortezza di Elbassan, da cui guida le operazioni.

Nel Settembre 1466, le forze albanesi sono allo stremo. Sia i difensori di Croia che i cavalieri di Scanderbeg hanno quasi finito le scorte di cibo, polvere, munizioni e, ancora peggio, denaro. Al Castriota non resta che imbarcarsi con pochi uomini per andare a raccogliere i ducati necessari presso Paolo II e Re Ferdinando. Quando arriva a Roma, il 12 Dicembre dello stesso anno, Scanderbeg viene accolto con grandi onori e 7.500 ducati, cui riesce ad aggiungere i 1.000 donati dal Re di Napoli e un buon quantitativo di vettovaglie e munizioni. Ritorna quindi in Albania per organizzare un nuovo esercito. È una lotta contro il tempo; Croia ha le settimane contate. A metà del 1467, gli esploratori del Castriota lo avvertono che c’è un altro esercito turco diretto a Croia. Il condottiero albanese si muove per intercettarlo e lo sconfigge in modo brutale facendo prigioniero Yonuz Pashà, fratello di Ballaban. Quest’ultimo ha eretto una serie di altre fortificazioni intorno Croia, e attende lì l’arrivo del fratello con i rinforzi. Al posto di Yonuz, però, arriva Giorgio Castriota Scanderbeg.

Il suo esercito rompe l’assedio e, al tempo stesso, Tanush Topia apre le porte della città per la prima volta dopo un anno, mandando alla carica i suoi uomini. Ballaban è incredulo: i due comandanti puntano proprio la sua guarnigione. Quando una palla di piombo lo passa da parte a parte e un dardo di balestra gli si conficca nel petto, il comandante turco si rende conto di essere appena stato sconfitto. Il Castriota esulta e incita il Topia a massacrare i Turchi, che senza il loro comandante non riescono a riorganizzarsi. I soldati ottomani, ora assediati nei loro forti (da assedianti ad assediati il passo è stato breve), offrono una resa completa in cambio della possibilità di tornare in Turchia. Questa volta, l’unico disposto ad accettare la proposta è proprio Scanderbeg, che dice agli altri “Omnia timentes nihil timent” (“quelli che hanno paura di tutto non hanno paura di nulla”), con riferimento al fatto che i Turchi sono comunque più del doppio degli Albanesi e non ha quindi senso gettarli nella disperazione più nera. Gli altri comandanti però vogliono vendetta. Uno di loro, Lek Ducaghini, dice solo “Embe ta”, traducibile come “Diamogli addosso”. Come racconta un cronista “... non gli pareva doversi usare misericordia verso l’infedeli nimici, ma quelli in pezzi tagliare”.

La carneficina ha subito inizio, ma, come previsto dal Castriota, moltissimi Turchi riescono a mettersi in salvo aprendosi la strada con la forza. Scanderbeg li guarda fuggire, ben sapendo che il Sultano tornerà a breve con un altro esercito. Anche questa volta però, nel Luglio 1467, Maometto II non riesce a prendere Croia, e procede quindi a devastare completamente ogni angolo del paese. Saccheggi, stupri, incendi ed esecuzioni di massa vanno avanti per più di due settimane, ma gli assalti improvvisi del Castriota provocano gravi perdite e costringono il Sultano all’ennesima ritirata ignominiosa.

All’inizio del 1468, giunta notizia che le milizie ottomane si stanno dirigendo, questa volta, verso Scutari, Scanderbeg prepara i suoi soldati. L’influenza lo sta fiaccando da giorni, ma monta comunque a cavallo e avanza in testa agli Albanesi, che pochi giorni dopo sconfiggono gli Ottomani.

Questa è l’ultima vittoria del Castriota. Una vittoria postuma, perché Giorgio Castriota Scanderbeg, uno dei più grandi guerrieri e condottieri del XV secolo, è morto cavalcando tre giorni dopo la partenza. I Turchi però sono all’oscuro del fatto e fuggono terrorizzati appena vedono apparire la sua cavalleria all’orizzonte.

Respinta – forse per pochi mesi – la minaccia turca, per i nobili e tutto il popolo albanese è il momento di piangere il suo eroe. I solenni funerali e la sepoltura hanno luogo nella Cattedrale di San Nicola ad Alessio. Quando gli Ottomani, anni dopo, conquistano la città, il mito dell’invincibilità del Castriota è ancora fortissimo. Alcuni di loro aprono la sua tomba e fanno a pezzi il suo scheletro per utilizzare i frammenti di ossa come amuleti dell’invulnerabilità.

Lo spirito di Scanderbeg sopravvive nei suoi compatrioti e, per dieci anni, li guida nella resistenza contro l’invasore. Quando l’Albania cede definitivamente a Maometto II, inizia uno dei periodi più difficili per il paese. I nuovi dominatori impediscono ogni espressione della cultura albanese e fanno stabilire decine di migliaia di turchi nelle città spopolate. I Cristiani subiscono le violenze e le tasse più dure. Molti di loro, per non vivere nella miseria e nel terrore del genocidio, abbracciano solo esteriormente l’islam, diventando criptocristiani. Molti, però, non vogliono rinunciare a ciò per cui hanno combattuto negli ultimi decenni. Così, alle tre ondate migratorie verso il Sud Italia della popolazione albanese avvenute prima della morte del Castriota, ne seguono altre cinque fra il 1478 e il 1774. A tutt’oggi gli Arbëreshë, gli Albanesi d’Italia (quasi 100.000 persone), continuano a tramandare le stesse tradizioni vecchie di secoli, al cui centro rimane la fede cristiana di rito bizantino. A parte l’adozione, nella maggior parte dei casi solo nominale, della fede islamica, gli Albanesi rimasti nella terra dei loro avi (specie nell’entroterra rurale) rimangono ostili ai governanti ottomani fino alla liberazione del paese, nel 1912.

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