Tratto dalla rivista Jesus, Aprile 2008: in edicola in questi giorni.
Esclusiva di Jemi.it
Dal balcone della curia scruta il corso principale con l’occhio di un padre buono. Conosce i suoi fedeli quasi uno per uno. Non sono tanti, poco più di 30 mila, per una diocesi che, con quella di Piana degli Albanesi, è la più piccola in Italia. «Siamo come il lievito», dice monsignor Ercole Lupinacci, da ventuno anni vescovo di Lungro, dopo essere stato per sei anni alla guida della diocesi siciliana. «La nostra diversità di lingua e di rito dà una maggiore ricchezza alla Conferenza episcopale ed è segno di quella unione che le Chiese cristiane vanno cercando».
- Lei parla di unità, ma vi sentite più ortodossi o cattolici?
«Dipende dal significato che si dà alla parola ortodossi. Dobbiamo ricordare che siamo due diocesi di rito bizantino, Lungro e Piana degli Albanesi, e poi c'è un monastero esarchico a Grottaferrata, vicino Roma, dove sono i monaci basiliani. L’abbazia fu fondata da san Nilo molto prima della divisione delle Chiese tra Oriente e Occidente, ed era una realtà precedente alla venuta degli italo-albanesi in Italia. Quanto alle due diocesi, erette – questa di Lungro – nel 1919 e l’altra – in Sicilia – nel 1937, sono molto recenti rispetto alla nascita delle comunità. Queste, infatti, risalgono all’ultimo tentativo di riunire le Chiese cristiane, almeno quelle dell’Oriente con quelle dell’Occidente, con il concilio detto di Firenze, del 1439. Subito dopo quell’evento vi fu la prima migrazione in massa dei greco-albanesi, che venivano in Italia. Tali popolazioni che emigravano venivano accettate come facenti parte di un unico corpo. È difficile dire oggi se eravamo ortodossi o meno. Se parliamo di Ortodossia con il significato semantico di vera fede allora dovremmo dire che i cattolici sono ortodossi e gli ortodossi sono cattolici. Se invece prendiamo il significato corrente, cioè di una comunità che ha un suo capo spirituale nazionale o un patriarca o un arcivescovo maggiore, ma che non dipende dall’unico capo che è il Papa, allora non siamo ortodossi. Con loro abbiamo in comune gli stessi libri, le stesse tradizioni, gli stessi sacramenti, lo stesso rito. Solo il rapporto con il Papa è diverso».
Uno scorcio di San Demetrio Corone.
- Non siete ortodossi, ma neppure "uniati", come vengono definiti i greco-cattolici rumeni o ucraini, per esempio.
«Certamente no. Quando i nostri avi vennero qui, nessuno ha chiesto loro un’abiura o un’adesione formale alla Chiesa di Roma. La nostra è l’unica Chiesa nata mentre c’era un’unione. I primi albanesi sono stati accettati come membri di quella stessa Chiesa che si era riunita da appena un decennio. Purtroppo quell’unione non ha avuto effetto, questa è stata la tragedia. Subito dopo essere stata siglata, è stata rifiutata dagli stessi sottoscrittori. E dunque la nostra è stata l’unica Chiesa di rito bizantino rimasta nella Chiesa di Roma».
La vostra presenza può essere un aiuto nei rapporti con gli ortodossi?
«Penso proprio di sì. Il vero nodo è quello del primato petrino. Il problema del cosiddetto "filioque", infatti, non è un vero problema: noi, nella nostra liturgia, non lo abbiamo, eppure siamo pienamente in comunione con Roma. Quanto al ruolo del Papa, ci sono stati dei passi in avanti con il recente documento di Ravenna, perché si è cominciato a parlare di un primus inter pares. D’altra parte lo stesso Giovanni Paolo II nella Ut unum sint diceva che bisognava studiare insieme il modo di esercizio del ministero petrino. La nostra presenza può essere d’aiuto perché testimonia concretamente la possibilità della comunione. Siamo un ponte, una presenza che arricchisce la Chiesa con un tesoro che è proprio dell’Oriente e che va mantenuto».
- La vostra è una diocesi pienamente integrata nel territorio. Condividete anche le stesse difficoltà pastorali che vivono i vostri "vicini" latini?
«Certamente anche per noi il materialismo, il secolarismo, il relativismo costituiscono delle difficoltà. Però, forse, abbiamo qualche risorsa in più rispetto alle altre diocesi. Nella nostra gente c’è un attaccamento molto forte alla tradizione religiosa. Tutto ciò che è nuovo, per noi arbresh, non è accettabile di primo acchito. Questo, in larga misura, ci ha preservato da molte influenze esterne dandoci il tempo di valutarle e di assimilarle con più calma, vagliandone il positivo e il negativo».
- Il fatto che la diocesi non abbia una contiguità territoriale cosa comporta?
«Sicuramente è una difficoltà aggiuntiva. La nostra diocesi si estende anche oltre i confini della Calabria. La maggior parte del suo territorio è in provincia di Cosenza, ma poi abbiamo qualche comunità in provincia di Potenza, una in Abruzzo e una in Puglia. In queste ultime località la mia giurisdizione è personale, cioè solo per i fedeli che sono di rito bizantino. Il problema grosso è l’emigrazione. I giovani se ne vanno perché non c’è lavoro. Abbiamo paesini sempre più piccoli, anche di soli cento abitanti. È un problema per il territorio che si spopola e per noi che dobbiamo seguire i fedeli. Chi segue il rito bizantino se lo porta con sé ovunque vada e non può cambiarlo se non con il permesso del Papa. Questa legge canonica è una grazia di Dio, ma anche una fatica che dobbiamo affrontare facendo i conti con la scarsità del clero».
- Come affrontate tale carenza?
«Un grande aiuto ci arriva dall’estero. Sono grato all’arcivescovo maggiore della Chiesa greco-cattolica di Romania, Lucian Muresan, che è stato generoso con la nostra diocesi e ci ha dato diversi sacerdoti che oggi vivono nelle nostre comunità. Hanno dovuto imparare il greco e l’albanese, ma si sono perfettamente integrati e sono stati accettati molto bene».
- Dal Convegno di Verona quale spunto avete ricevuto?
«Ci siamo confermati nella importanza di valorizzare lo spirito missionario. Soprattutto, ci siamo concentrati sul fatto che la missione non può attuarsi solo con il clero, ma ha bisogno dei laici. La parrocchia non può più essere dedita solo a chi frequenta, ma deve essere aperta ai lontani, capace di cercare la gente. Questo si può attuare solo se si valorizza la corresponsabilità dei fedeli laici e se ne cura la promozione. A Lungro siamo abbastanza avvantaggiati perché abbiamo un’Azione cattolica che lavora molto bene. Non abbiamo presenza di movimenti o di altre associazioni. Ma questo non è una carenza. Anzi, l’Azione cattolica ha creato una rete tra persone territorialmente anche molto distanti e ha fatto sì che la forza dei laici fosse convogliata in un impegno che assicura alla nostra diocesi un coinvolgimento serio di tutto il popolo di Dio».
Annachiara Valle
di Annachiara Valle - foto di Alessia Giuliani/Catholic Press Photo Jesus Aprile 2008