Oggi sempre più frequentemente sentiamo parlare di mondo globale, di scomparsa di confini territoriali e simbolici, di mercati aperti, di standardizzazione dei consumi e dei tratti culturali, volendo utilizzare un’unica parola sentiamo parlare di globalizzazione.

Sebbene ci si riferisca prevalentemente agli aspetti economici delle relazioni fra popoli e grandi aziende, il fenomeno va inquadrato anche nel contesto dei cambiamenti sociali, tecnologici e politici. È proprio nel contesto dei cambiamenti sociali che negli ultimi anni si sono diffusi slogan tipo “la società elettronica”, il “villaggio globale”, la “mcdonaldizzazione del mondo” o “l’epoca dell’informazione” che tendono ad indicare una sorta di pericolo omologante per le diverse culture, implicito nei processi di globalizzazione. Un tema, questo, che riguarda direttamente il destino delle comunità minoritarie e che è stato oggetto della trattazione della mia tesi di laurea specialistica in “Valorizzazione dei sistemi turistico-culturali” presso l’Università della Calabria. Nello specifico, ci si è posti l’obiettivo di capire se la minoranza arbëreshe stia cedendo al vortice della modernizzazione e della globalizzazione o se nel tempo abbia creato una resistenza che le abbia permesso di mantenere vive le tradizioni e tutto ciò che costituisce la sua identità. Il filo conduttore della ricerca è rappresentato da quello che comunemente i socio-linguisti definiscono lealtà linguistica ed identitaria, cioè l’attaccamento alla propria lingua e alle caratteristiche identitarie senza le quali il destino di una comunità minoritaria è irreparabilmente compromesso e segnato. Si è partiti da questo presupposto perché in seguito ai finanziamenti concessi dalla legge 482/99 in materia di tutela delle minoranze linguistiche e della programmazione europea e nazionale, accade che alcuni comuni o frazioni di comuni che appartenevano a gruppi linguistici storici minoritari negli anni hanno perso del tutto le caratteristiche identitarie e oggi hanno la presunzione di rivendicare in modo strumentale le loro origini per accaparrarsi fette di finanziamenti. A fronte di questo, risulta doveroso fare una distinzione tra le comunità che continuano a mantenere le caratteristiche dell’identità arbëreshe e quelle che con il tempo le stanno ormai perdendo. Primo aspetto da valutare ha riguardato l’uso della lingua arbërisht che costituisce la componente più immediatamente percepibile – sebbene più elementare e comunque non unica – del patrimonio culturale arbëreshe. In tal senso, è stata effettuata una ricerca condotta attraverso un’indagine pilota rivolta ai residenti dei comuni arbëreshe della provincia di Cosenza per analizzare il grado di percezione della propria cultura e, quindi, l’uso della lingua.

L’universo è costituito dagli abitanti dei comuni arbëreshe della provincia di Cosenza, ma data l’impossibilità di prendere in esame tutte le unità di analisi che lo costituiscono, si è provveduto alla selezione casuale di un campione costituito da venti abitanti per ognuno dei ventidue comuni. Chiaramente i dati raccolti da un campione simile non è del tutto rappresentativo dell’universo ed è ovvio che i risultati ottenuti dipendono da chi ha risposto e dalle sue caratteristiche anche anagrafiche.

Ad ogni modo, di seguito si riportano i risultati ottenuti con il dettaglio per comune.

Alla prima domanda posta (se parla o meno la lingua arbërisht), come si evince dalla tabella, ben il 74,77% ha risposto in maniera affermativa.

Graf. 5.1 – risposte alla domanda n.1:  “Parla arbërisht?”

Fig1  Fonte: ns. ricerca 2011-2012


Alla domanda seguente, si è inteso conoscere quante persone parlano la lingua all’interno di ogni singolo comune.


Graf. 5.2 – risposte alla domanda n.2:  “Quante persone parlano arbërisht nel Suo comune?”

Fig2 Fonte: ns. ricerca 2011-2012

 

Il 38,18% e il 35,68% hanno risposto che nel loro comune la lingua viene parlata dalla maggior parte delle persone o comunque da abbastanza persone e c’è un notevole distacco da chi sostiene che nel suo comune viene parlata, invece, da poche persone, solo da anziani o addirittura non viene parlata più. Il quadro, per quanto generico è comunque molto positivo. La Tab. 5.2, però, mostra in maniera generale l’esito delle risposte date dai 440 intervistati ed è opportuno fare una differenza per comune di residenza in modo tale da avere dei dati per ogni caso specifico.
Fig3 In ordine decrescente compare il comune di Acquaformosa in cui tutti e 20 gli intervistati hanno risposto che a parlare la lingua siano in molti o la maggior parte, a seguire vi sono riportati i comuni in cui si arriva al totale delle venti risposte con entrambe le opzioni “Molte, la maggior parte” e “Abbastanza”.
Quindi, si evince che l’arbërisht si parla di più nei comuni di Acquaformosa, Lungro, Castroregio, Firmo, San Cosmo Albanese, San Basile, Cerzeto, San Giorgio Albanese, Civita, San Benedetto Ullano, San Demetrio Corone, Santa Sofia d’Epiro e Plataci. Gli intervistati dei comuni di San Giorgio Albanese, San Martino di Finita, Spezzano Albanese e Frascineto hanno dato, invece, risposte più variegate a riguardo rispondendo con “Molte, la maggior parte”, “Abbastanza” e anche con “Poche”. Più netta è la situazione che emerge per i comuni di Vaccarizzo Albanese e Falconara Albanese in cui si afferma che la lingua si parla da “Abbastanza” e “Poche” persone. Ancor meno si parla la lingua nei comuni di Cervicati, Molte, la maggior parte Abbastanza Poche Solo gli anziani Non si parla più Mongrassano e Santa Caterina Albanese caratterizzate comunque da una marcata eredità storica e culturale arbëreshe. Diversa è la situazione del comune di Rota Greca in cui la lingua viene ormai parlata da pochissime persone ed è andata perdendosi quasi del tutto anche l’eredità culturale tipica della minoranza.
I risultati ottenuti mostrano le differenze tra le comunità e come in tante la lingua venga parlata da poche persone o addirittura solo dagli anziani. Ci si chiede se la perdita delle caratteristiche identitarie di queste comunità sia dovuta a fattori interni o alla vicinanza di centri maggiori vicini non albanofoni, o ancora al processo di emigrazione che sta svuotando i nostri centri. Ma le cause potrebbero, però, riguardare anche il panorama legislativo in materia di salvaguardia delle minoranze calabrese, con la legge n.15 del 2003, ed italiano tramite la legge quadro 482/1999 “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche” che, dopo più di un decennio dalla sua introduzione, è rimasta parzialmente inapplicata in alcuni punti rilevanti come quello dell’insegnamento delle lingue minoritarie nelle scuole e dei rapporti da instaurare con la RAI per la messa in onda di programmi televisivi in lingua. Il ruolo principale oggi lo deve svolgere la scuola, l’insegnamento della lingua, della letteratura e della cultura arbëreshe deve essere inserita nella scuola dell’obbligo perché è un dovere dello stato italiano insegnare a scrivere aibambini la lingua dei propri genitori; inoltre, va operata una forma di sensibilizzazione delle famiglie e dell’intera comunità con un impegno spontaneo e convinto a favore della lingua materna che oggi è minacciata. Questo coinvolgimento può essere favorito anche da trasmissioni televisive in lingua nelle reti RAI e deve avere come obiettivo la convinzione che l’uso dell’arbërisht non danneggia i parlanti in nessun modo, anzi li privilegia, perché li fa crescere e sviluppare armonicamente con la cultura di base e li facilita nell’apprendimento di altri codici linguistici come l’inglese, il francese e il tedesco

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